Arrogante e offensivo verso un collega: ciò non basta per essere estromesso dall’azienda
Per i giudici è lampante la sproporzione della sanzione espulsiva rispetto ai fatti accertati

Arrogante e offensivo verso un collega: ciò non basta per il licenziamento. Questa l’ottica adottata dai giudici (ordinanza numero 5940 del 6 marzo 2025 della Cassazione), chiamati a prendere in esame il contenzioso relativo alla posizione di un dipendente di una società a responsabilità limitata (con oltre 37milioni di euro di fatturato ed oltre cento dipendenti).
A mettere nei guai il lavoratore sono le frasi per nulla gentili rivolte ad un collega, per giunta alla presenza di un ulteriore lavoratore. Tra primo e secondo grado viene ricostruito facilmente l’episodio e vengono identificate le espressioni incriminate, ossia “finto tonto”, “incompetente” e “te non hai capito qual è il problema e non mi meraviglio”, espressioni ritenute sufficienti, secondo l’azienda, per mettere alla porta il lavoratore.
Chiara la prospettiva adottata dalla società datrice di lavoro, che ha licenziato per giusta causa il lavoratore, a fronte, come detto, dell’addebito disciplinare relativo alle espressioni offensive da lui rivolte ad un collega. E quella prospettiva è condivisa dai giudici del Tribunale, i quali riconoscono l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e, pertanto, condannano la società a pagare al lavoratore l’indennità sostitutiva del preavviso.
Nettamente più favorevole al dipendente è il pronunciamento dei giudici d’Appello, i quali ravvisano la sproporzione della sanzione espulsiva rispetto ai fatti accertati e però dichiarano risolto il rapporto di lavoro – durato oltre venti anni – e condannano la società a pagare al lavoratore un’indennità risarcitoria quantificata in quasi 60mila euro.
Precise le valutazioni compiute dai giudici di secondo grado. A loro parere, nello specifico, accertato il fatto nella sua materialità, non può dirsi che si tratti di espressioni innocue, in quanto dimostrano una forma di comunicazione apertamente sprezzante ed ostile. Tuttavia, il gravame proposto dal lavoratore è fondato con riguardo alla valutazione della gravità del fatto. Non può condividersi, quindi, il convincimento circa la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, atteso che il licenziamento è sempre l’extrema ratio. Inoltre, sul piano della proporzione, si è in presenza di un’intemperanza verbale del lavoratore certamente grave, a prescindere dal fatto che il destinatario fosse oppure no un suo superiore gerarchico, tuttavia si è trattato di un singolo episodio, non è trasceso oltre l’offesa verbale, non ha provocato conseguenze rilevanti sull’andamento del lavoro, non ha arrecato danno all’azienda, annotano i giudici d’Appello.
Tirando le somme, per i giudici di secondo grado, la condotta tenuta dal lavoratore, valutata in termini di arroganza dimostrata nei confronti di un collega e in presenza di altro dipendente, avrebbe dovuto essere sanzionata con la sospensione, e quindi il licenziamento è sanzione eccessiva, essendosi trattato di un momentaneo scatto di rabbia del dipendente. Ecco spiegata, quindi, la tutela risarcitoria in favore del lavoratore.
A portare la vicenda in Cassazione è il lavoratore, che ritiene inaccettabile il risarcimento e punta invece alla reintegra in azienda. In questa ottica, difatti, il legale che lo rappresenta sostiene sia palese l’incongruenza della decisione presa in Appello, poiché si è riconosciuta la tutela indennitaria, e non il rientro del lavoratore in azienda, pur avendo ravvisato l’insussistenza del giustificato motivo soggettivo e della giusta causa alla base del licenziamento.
A tale obiezione i magistrati di Cassazione ribattono richiamando lo ‘Statuto dei lavoratori’, che, osservano, prevede la tutela cosiddetta reale (sia pure attenuata) della reintegrazione soltanto nel caso in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili. In sostanza, ai fini della tutela reintegratoria invocata dal lavoratore, non basta che sia ritenuto insussistente il giustificato motivo soggettivo (o la giusta causa) alla base del licenziamento, ma è necessario che, all’esito del giudizio di merito, si accerti che il fatto non sussista sul piano della sua storicità (fatto materiale) o della sua rilevanza disciplinare (fatto giuridico), oppure che sia previsto come punibile con sanzione conservativa. Ma nessuna di queste fattispecie è applicabile, secondo i giudici, alla vicenda in esame, né il lavoratore si premura di indicare l’eventuale clausola del contratto collettivo (o del codice disciplinare aziendale) che preveda in ipotesi espressamente la condotta – in concreto a lui contestata sul piano disciplinare – come punibile con sanzione conservativa. Invece, soltanto sul piano dell’apprezzamento della proporzione sanzionatoria i giudici d’Appello si sono spinti a ritenere che al massimo la condotta in concreto accertata sarebbe stata sanzionabile con una sospensione dal servizio e dalla retribuzione, chiosano i magistrati di Cassazione.