Figlio maggiorenne ma con un problema psichico: ha diritto al mantenimento paterno
Fondamentale però che la sua difficoltà da inserirsi nel mondo del lavoro sia collegabile ai problemi di salute

Mantenimento confermato per il figlio maggiorenne con un problema psichico se la documentazione medica collega la sua difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro alle rilevanti problematiche di salute che lo affliggono da tempo.
Questa la posizione assunta dai giudici (ordinanza numero 19623 del 16 luglio 2025 della Cassazione) a chiusura di una delicata vicenda che ha visto un padre cercare, in tutti i modi, di liberarsi dall’onere economico verso il figlio, maggiorenne ma affetto da un disturbo schizoaffettivo.
Logico catalogare la questione come strascico ulteriore per una procedura di divorzio: sul tavolo c’è, come detto, il contributo al mantenimento del figlio maggiorenne ma non autonomo, contributo che il padre deve versare all’ex moglie e che viene quantificato, sia in primo che in secondo grado, in 800 euro al mese.
In particolare, in Appello viene richiamata la documentazione sanitaria relativa alla situazione del giovane, documentazione da cui emerge che egli è seguito da quasi dieci anni per un disturbo schizoaffettivo, che ha determinato anche crisi pantoclastiche (caratterizzate cioè da un impulso morboso a rompere qualsiasi oggetto si trovi a portata di mano), aggressività fisica ed ideazione persecutoria, e questa situazione ha reso necessario prima il suo ricovero in regime di trattamento sanitario obbligatorio e poi un percorso presso una casa di cura, tenuto conto anche di un rilevante abuso di sostanze alcoliche. In aggiunta, poi, dalla relazione di aggiornamento trasmessa da un ‘Dipartimento di Salute Mentale’ si deduce che la situazione del giovane è attualmente compensata grazie ad una impegnativa terapia farmacologica.
A fronte di tale contesto, per i giudici d’Appello il mancato inserimento lavorativo del giovane deve imputarsi non tanto ad una sua carente volontà, quanto piuttosto a concrete e rilevanti problematiche fisiche, mentre è ritenuto irrilevante il fatto che tali problematiche non siano state approfondite al fine di ottenere un sussidio previdenziale per il giovane o di avviare una specifica misura di tutela.
Per chiudere il cerchio, infine, i giudici d’Appello sottolineano anche l’adeguatezza dell’importo dell’assegno, tenuto conto delle risorse di cui dispone il padre e delle concrete esigenze del figlio.
Per il genitore, però, la cifra fissata dai giudici è eccessiva. Consequenziale il ricorso in Cassazione, mirato ad ottenere la cancellazione dell’obbligo di contribuzione al mantenimento del figlio o, in subordine, almeno la riduzione dell’esborso economico.
Ragionando in questa ottica, il legale che rappresenta l’uomo sostiene la tesi che in Appello sia stato commesso un grosso errore, avendo i giudici equiparato la condizione di figlio ultra-maggiorenne non autosufficiente a quella di figlio portatore di handicap grave, alla luce della legge 104 del 1992, e comunque di persona totalmente inabile al lavoro, e non avendo, invece, accertato se la malattia psichica impedisca al giovane di reperire un’attività lavorativa idonea almeno ad un parziale guadagno. E ciò anche tenendo conto, aggiunge il legale, dei miglioramenti annotati nella relazione di visita neurologica e degli effetti positivi conseguiti al percorso terapeutico riabilitativo che il ragazzo ha seguito negli anni e tale da fargli riacquistare una parziale autonomia.
Peraltro, la situazione del giovane è compensata da una impegnativa terapia farmacologica, osserva il legale, e ciò esclude, a suo parere, una condizione di grave handicap e di inabilità al lavoro.
Chiara la tesi sostenuta dall’avvocato: va escluso il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, pur essendo quest’ultimo affetto da disturbo schizoaffettivo. Ma questa visione è assolutamente priva di fondamento, secondo i magistrati di Cassazione, poiché si è appurato che la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economica reddituale del giovane è dipesa, in via diretta ed in modo incolpevole, da peculiari e specifiche ragioni individuali di salute, che gli hanno, di fatto, impedito, fino ad oggi, di reperire una attività lavorativa.
In particolare, alla luce delle relazioni mediche e dell’aggiornamento trasmesso dal Dipartimento di Salute Mentale, il mancato inserimento lavorativo del giovane deve imputarsi non tanto ad una sua carente volontà, quanto piuttosto a concrete e rilevanti problematiche, mentre è assolutamente irrilevante, contrariamente a quanto sostenuto dal padre, il fatto che quelle problematiche non siano state approfondite al fine di ottenere un sussidio previdenziale per il giovane o di avviare una misura di tutela del giovane.
Non a caso, una relazione medica, risalente a due anni fa, conclude nel senso di ritenere il ragazzo non in grado di poter effettuare attività lavorativa con profitto e costanza, osservano i magistrati. E in questo quadro non rappresenta una circostanza decisiva il lavoro offerto al giovane dal padre, chiosano i giudici di Cassazione.